LA POP STAR SENZA UNA GAMBA
LA NOVITÀ. L’ESSERE SE STESSI ATTRAVERSO SE STESSI.
Viktoria Modesta si presenta quale personaggio sospeso fra Betty Boop e Rachel, la segretaria, replicante, della Tyrrel Corporation di Blade Runner. Fra una pin-up dei fumetti, sensuale e un pizzico infantile, e una donna surreale, elegantissima quanto capace di grande passione in virtù della sua fragilità esistenziale. Due simboli temporalmente opposti, il primo emblema nostalgico di un’epoca ben definita e l’altro icona di un divenire plausibile quanto irrealizzato.
Al centro lei, raffinata ed ambiziosa. Convinta di poter cambiare il mondo, non solo quello dell’arte pop, esibendo la sua protesi alla gamba sinistra con la sfrontatezza di For the love of God di Damien Hirst e la naturalezza dell’orologio sul polsino di Gianni Agnelli. Viktoria nasce nel 1987 a Daugavpils, in quella Lettonia che allora era Unione Sovietica e la cui influenza culturale sembra emergere, per antitesi, nel suo spirito volto alla rivisitazione degli schemi, alla creatività ed a una certa forma di provocazione, sottile e intelligente.
A dodici anni la famiglia si trasferisce a Londra. A quindici anni è modella. Più tardi si ferrerà in campo musicale e la sua carriera sarà caratterizzata da un’accurata presentazione del suo corpo nell’affermazione delle sue doti canore, pur mostrando una propensione ad essere aperta a qualunque contaminazione artistica e culturale, come dimostrano la sua abilità nella danza e il suo impegno nel campo della disabilità. Vittima di bullismo a scuola la lascia alle superiori, ma la disabilità non ne è la causa primaria.
Ai media inglesi rivela che aveva tutto per essere presa in giro: il tipo di pelle, il nome, il fatto di essere straniera ed anche la disabilità. Ma quel difetto alla gamba sinistra ha il suo peso. È così dalla nascita a causa di un parto riuscito male. Una manovra compiuta come non si doveva e l’arto resta offeso. Fra i sei ed i dodici anni si sottopone a quindici interventi per migliorare la situazione, ma l’esito non è confortante. Ancora adolescente scopre Aimee Mullins, atleta paralimpica statunitense, attrice e modella biamputata che sfila per Alexander McQueen, primo stilista a far sfilare una modella amputata, proprio la bella Aimee. Fiorisce in lei il desiderio di rimuovere la gamba per stare meglio. Insiste e riesce a convincere i medici ad amputare la gamba sinistra, appena sotto il ginocchio. È una nuova vita.
Ha vent’anni. Racconta di essersi sentita subito ringiovanita. Inizia a usare via via diversi tipi di protesi ma non disdegna di mostrare la gamba amputata finanche a farsi fotografare nuda in immagini d’autore. La ragazzina ha testa. Non è una bambola con parti intercambiabili che prendi e usi come vuoi. Non è caricatura di se stessa, tantomeno controfigura di qualcuno. Non insidia Lady Gaga, semplicemente va oltre. Recentemente partecipa alla versione britannica di X Factor e il suo pezzo in retePrototype riceve in poco tempo milioni di clic, consacrandola come pop star di livello planetario. Sul suo sito si vede il video che si presta a suo manifesto. C’è lei che balla con una protesi appuntita.
Movenze in cui la punta del suo corpo compasso lascia tracce nette sull’ostico pavimento. Lei lo incide. Lo spacca. Altrove sfoggia tutta la sua bellezza con classe, davanti ai bimbi, contro le milizie dell’oscurantismo che vogliono fermare la rivoluzione che lei ha innescato. E si mostra anche con il corpo nudo, senza protesi, assisa su un letto con lenzuola di seta altare di lussuriose avventure. Il video inizia con un ammonimento: dimenticate quello che pensate della disabilità.
Viktoria, che nel video indossa una protesi al neon di altissima fattura della THE ALTERNATIVE LIMB PROJECT ed altre che spaziano da quella appuntita a quella tempestata di strass, nel 2012 ha partecipato alla cerimonia di chiusura dei Giochi Paralimpici di Londra, ma non pensa a sé come a una persona disabile, semmai come ad una persona con problemi di salute, e questo me la rende definitivamente una protagonista. Finalmente un’insegna in carne ed ossa di come la disabilità non sia altro che il rapporto fra condizione di salute della persona e ambiente circostante. Viktoria è innanzitutto una persona, poi, almeno per il momento, è nota come una pop star.
Che sia anche disabile è una parte del tutto, non la parte che definisce il tutto. In buona sostanza Viktoria non guida una rivoluzione, tuttavia la mette in atto. Siamo ancora lontani dai replicanti, meravigliosi agglomerati sintetici di tessuti in luogo di quelli naturali, ma siamo nell’era della modernità. Quella delle protesi avveniristiche che si accendono di led, che ti fanno scattare come una pantera lungo la corsia dei cento metri e che non hai paura di toglierle per mostrare il moncherino.
È un termine brutto, ma è parte di sé. È il corpo di Viktoria al pari delle parti artificiali. Lo sa e lo vive. Questa è davvero la novità. L’essere se stessi attraverso se stessi. Questo è il futuro, che è presente e che spero diventi presto conclamato. Come Betty Boop, passo inevitabile verso quello successivo lungo un cammino evolutivo ormai avviato.
https://www.youtube.com/watch?v=jA8inmHhx8c
C’è sempre qualcosa di magico quando ci si accorge che il sogno diventa realtà.
Come per Paolo: grazie a una bella organizzazione, tanti amici intorno, una azienda illuminata. Paolo nuota. Ha 21 anni. Si diverte in piscina. Anche quando gareggia. E vorrebbe farlo in quella che sarà la p
iscina più bella, divertente, colorata e affollata di atleti che, come lui, sono nati con sindrome di Down.
Nel 2015 si svolgerà un evento straordinario: i Giochi Mondiali di “Special Olympics”, che si occupa in ogni dove di sport per persone con disabilità intellettiva e relazionale, si svolgeranno a Los Angeles. Un ritorno a casa: era il 1968 quando negli Stati Uniti Eunice Kennedy Shriver fondò SO. Ora è presente in 170 Paesi, con 4 milioni di persone coinvolte.
I Giochi Mondiali sono una festa dello sport come poche. Per dire: alla Cerimonia di apertura hanno cantato anche gli U2. Paolo, da quando ha 18 mesi, va in piscina: a divertirsi, ma anche gareggiare. E’ bravo: “Che bello sarebbe essere a Los Angeles”. Sarà così: farà parte della rappresentativa italiana. Special Olympics, in ogni Paese, ha un programma: “Adotta un campione”.
Ad American Express Italia si sono detti: diamogli una mano. I dipendenti sono contagiati: 80 fanno parte dei volontari di SO, in 400 lo hanno applaudito quando ha raccontato la sua storia (e la sua felicità) in un incontro aziendale. E saranno con lui, nella piscina di Los Angeles, nel sogno di Paolo che si avvera. Perché grazie al loro coinvolgimento Paolo potrà essere là. L’idea è di quelle semplici, ma che pochi o poche aziende poi cercano di seguire: seguiamo la persona, stiamogli vicino, interessiamoci a lui/lei.
“I care”, quel io ho a cuore sublimato da Don Milani. Paolo è entrato nel cuore non di una azienda, ma delle persone che quella azienda la compongono e per le quali, ora ancora di più, non è soltanto un luogo di lavoro.
“Adotta un campione” vuol dire più che accompagnarlo a un evento, bello e grande fin che si vuole, come saranno i Giochi di Los Angeles. Per Paolo lo sport non è solo la vittoria. Conosce a memoria il giuramento dell’atleta di Special Olympics: “Che io possa vincere, ma se non riuscissi, che io possa tentare di farlo con tutte le mie forze”. Vale per tutti, è l’essenza dello sport. A lui fare sport ha permesso di avere amicizie, emozioni, obiettivi.
E’ atleta nel corpo e nell’anima, grazie ai programmi di SO. Il suo impegno, non solo nello sport, ma anche nella scuola, gli ha permesso di raggiungere traguardi nella vita di tutti i giorni: farsi la doccia da solo, prepararsi e recarsi agli allenamenti settimanali in totale autonomia, avere appuntamenti da rispettare. Ecco, appunto, le vittorie.
http://invisibili.corriere.it/2014/11/28/paolo-che-nuotera-a-los-angeles-non-da-solo/
Iris ha 4 anni e vive in un mondo colorato e sereno, fatto di arte, musica e amore.
L’arte è quella dei suoi bellissimi dipinti, la musica è quella del violino che suona mentre guarda un’orchestra esibirsi su Youtube, l’amore è quello di due genitori attenti che, da un lato dedicano alla bambina tutte le cure che l’autismo richiede (le è stato diagnosticato nel 2011), dall’altro diffondono attraverso il web e i social network tutte le iniziative tese a migliorare la qualità della vita della figlia.
E diventano così anche un punto di riferimento per altri genitori nella stessa situazione. L’ultimo entrato in casa Halmshaw, in Gran Bretagna, è un gatto di nome Thula, che da qualche mese fa compagnia a Iris.
“Con lui – raccontano i genitori dalla pagina Facebook -Iris Grace Paintings – Iris è migliorata molto: parla di più, è più aperta. Addirittura accetta di vestirsi più facilmente rispetto a prima.
La bimba racconta a Thula le storie e le avventure che inventa con i suoi giochi, gioca a nascondino, spiega il procedimento dei suoi dipinti e il gatto, pazientemente, la segue in tutte le attività della sua giornata. La sera, poi, si addormentano insieme”.
Un’altra storia che conferma gli effetti positivi sull’autismo del rapporto tra uomo e animale.
Di Iris Grace e dei suoi dipinti Repubblica ne aveva già parlato nel 2013, quando la famiglia, dopo la pubblicazione dei disegni su Facebook, aveva ricevuto tantissime richieste: questo è il link: http://www.repubblica.it/persone/2013/07/02/foto/gb_il_talento_di_iris_i_dipinti_della_bimba_autistica_di_tre_anni-62236355/1/#1
Federico verso Santiago, con Karola e papà.
Questo cammino vuole sensibilizzare l’opinione pubblica sulla CARTA DEI DIRITTI PER LE PERSONE AUTISTICHE in particolare sugli articoli 11 e 12
11 IL DIRITTO per le persone autistiche a mezzi di trasporto accessibili e alla libertà di movimento.
12 IL DIRITTO per le persone autistiche ad aver accesso ad attività culturali, ricreative e sportive e a goderne pienamente.
E’ il cammino ma può essere molto di più”. Parole preziose, tirate fuori dallo scrigno delle emozioni. Così Elena Sandre si mette in ascolto profondo di Federico, 12 anni, ragazzo autistico che ha percorso il Cammino di Santiago insieme al papà e a Karola, la sorellina più piccola. Chi frequenta l’autismo, riconosce fra le righe di Elena due dei temi fondamentali che ruotano intorno a questa particolare forma di disabilità: un certo pionierismo dei genitori che saggiano, rischiando in proprio, i limiti dei figli perché possano essere superati in famiglia e in società (vedi cliccando qui anche la Cavalcata dei ragazzi autistici) ; e il tema dei fratelli che non solo si capiscono oltre ogni adulta cognizione ma che si appartengono, profondamente, in quella zona franca che è l’apparente non-comunicazione degli autistici. Elena Sandre dipinge ad acquerello tutti i colori di una famiglia con autismo, colori che aspettano di essere colti, lungo il Cammino di Santiago ed oltre. (s.mor.)
di Elena Sandre
Difficile pensarli invisibili con quella bandiera della Sardegna attaccata allo zaino che sprigiona energia. Eppure l’autismo, delle volte, invisibile lo è. Eccome. Lo è perché si pensa spesso che una disabilità di questo genere debba rimanere lontano dagli occhi di chi cammina nella società.
Ed è proprio per combattere quest’idea di invisibilità che Pierangelo Cappai, di Cagliari, ha deciso di camminare per 13 giorni: 113 chilometri, da Sarria a Santiago, sul famoso cammino dedicato a San Giacomo, pellegrinaggio di fedeli e non, insieme al figlio Federico, 12 anni, autistico. Di più. Ha deciso di farlo anche in compagnia dell’altra figlioletta, Karola, 8 anni.
Pierangelo ha 42 anni, professore di tecnica turistica, è presidente dell’Associazione Diversamente Onlus che ha dato vita all’iniziativa “In Cammino con l’autismo” (2500 fan su facebook) e insieme ai figli è partito da Cagliari con l’aereo, è arrivato a Madrid, ha raggiunto Burgos in pullman e successivamente Sarria in treno.
Più di una metafora quella del cammino di Santiago per loro, tra difficoltà, fatica e ostacoli: “L’idea iniziale – spiega Pierangelo – era diffondere la Carta dei diritti delle persone autistiche: il diritto a mezzi di trasporto accessibili e alla libertà di movimento, per fare un esempio. Poi sono usciti altri obiettivi come dimostrare alle famiglie che con i figli autistici si può fare tutto. E ad essere sincero non ero così certo di arrivare a Santiago.
Anzi, ero pronto a tornare a casa il giorno dopo perché Federico è un ragazzino molto pigro. Invece, lasciato nella libertà, ha dato più di quel che si potesse sperare”.
Particolare la formazione a tre con Karola: “Non doveva neanche venire. Ma poi ha insistito, voleva fare anche lei questa esperienza e meno male che è partita con noi: si è dimostrata una piccola donna, responsabilizzata, che mi ha aiutato molto nelle piccole cose, perché è chiaro che Federico non può mai rimanere solo. Il cammino ti dimostra che tutto è possibile e che, soprattutto, quel che è possibile sul cammino, con tutte le sue difficoltà, è possibile anche nella vita.
Anzi, a maggior ragione”. Per cogliere a fondo i colori di Federico, è bastato guardarlo durante la penultima tappa, quella che da Arzùa porta a O Pedrouzo: papà Pierangelo vuole camminare perché la strada da fare è ancora molta. Federico, invece, non ne vuole sapere. Vede un gruppo di ragazzi che ridono, bevono qualcosa seduti al bar, parlano tante lingue, arrivano da mondi diversi. Federico sfugge per un attimo a papà Pierangelo e si siede con loro. Porta la sedia vicina il più possibile al tavolo, appoggia i gomiti e il viso sulle mani, come a dire: “Io di qui non mi muovo”.
Ascolta e guarda i ragazzi. Vuole ridere, vuole parlare anche lui la sua lingua. Vuole raccontare anche lui del suo mondo. E’ il cammino. Ma può essere molto di più.